A cura di
Giorgio Ragazzini
Professor Zappella, sembra che ci sia
nella scuola un numero crescente di bambini e ragazzi che presentano problemi
di dislessia, disgrafia, discalculia, i cosiddetti DSA (Disturbi Specifici di
Apprendimento). È vero che sono in crescita? E quali sono le cause?
Negli anni sessanta la
percentuale di dislessia nel nostro Paese era valutata attorno all’1%.
Attualmente raggiunge valori del 6% e oltre, in certe situazioni sale al 10% e
a valori anche maggiori. Quest’aumento in realtà dipende dal confondere problematiche
diverse: accanto alla dislessia, condizione rara su base neurobiologica, spesso
con una componente ereditaria, ci sono le difficoltà di lettura che sono molto
più frequenti e sono collegate a fattori ambientali come situazioni
socioculturali sfavorevoli, l’abitudine di guardare la tv molte ore al giorno,
contesti scolastici caotici o con bullismo, insegnamento inadeguato, eccetera.
Questa distinzione, purtroppo, nel nostro Paese non viene fatta quasi mai. Per
tutti i casi si parla di dislessia e quasi sempre la diagnosi è affidata
soprattutto a dei test. Ma le due cose richiedono differenti strategie di
apprendimento, con un ruolo centrale della scuola per le difficoltà di lettura.
Per queste ultime, difatti, ci sono varie modalità d’intervento di stampo
prettamente scolastico, che possono essere attuate con successo in una
collaborazione tra scuola e famiglia. Ciò non avviene quasi mai e i ‘dislessici’,
veri e falsi, hanno tutti delle misure compensative a scuola (uso del computer
e delle calcolatrici, audiolibri e altri sussidi) e poi vanno in terapia dai
logopedisti. A questo proposito è bene chiarire che una diagnosi seria si fa
valutando il bambino, conoscendo lui, la sua storia, quella della sua famiglia
e le corrispondenti risorse educative: poi ci può essere anche il test.
Da notare che i dati Ocse-Pisa
indicano sul tema della lettura un declino dell’Italia, che nel 2016 è scesa al
di sotto dei valori medi con il 21% dei ragazzi che all’inizio delle scuole
superiori non raggiungono i livelli minimi di competenza nel leggere. I nostri
attuali livelli sono persino inferiori a Paesi di lingua inglese (Regno Unito,
Irlanda, US), lingua considerata ‘opaca’, perché spesso non c’è corrispondenza
tra lo scritto e come lo si legge. L’italiano, viceversa, è una lingua
‘trasparente’, cioè con una corrispondenza quasi sempre precisa tra scrittura e
lettura, per cui dovrebbe essere molto più facile imparare a leggere. Quindi
c’è una grave decadenza nell’apprendimento delle abilità fondamentali.
Questa vera e propria
epidemia di dislessia me ne ricorda un’altra: quella che portava in classi
differenziali e a volte speciali soprattutto i figli di emigranti italiani
interni. A quel tempo l’etichetta comune era ‘ritardo mentale’ e uno studio
fatto in Emilia aveva stabilito che i casi di questo tipo ammontavano al 15%. Oggi
invece si attribuisce il ritardo mentale all’1.5% della popolazione. Anche
allora la diagnosi si faceva con i test. In realtà a quel tempo i ritardati
mentali su base neurobiologica erano una piccola minoranza: la grande
maggioranza non erano ritardati, ma fallivano nei test perché parlavano in
dialetto, conoscevano poco l’italiano e venivano da ambienti poveri dove non
c’era un giornale o un libro. E il ritardo mentale portava a ruoli marginali
nel lavoro. Oggi questo è vero per le capacità di lettura, scrittura e calcolo.
Allora l’esclusione, cioè la mancata partecipazione di un bambino a un percorso
scolastico adatto alle sue potenzialità, era sancita dall’inserimento in classi
differenziali; le nuove forme di esclusione, invece, avvengono in classe
insieme a tutti gli altri ragazzi, in un’ inclusione illusoria.
Potrebbe
aver avuto un’incidenza sull’ “epidemia” di disgrafici e dislessici la minore
attenzione che negli anni ’70 si dette alla calligrafia e all’ortografia, viste
da alcuni pedagogisti come coartazione della spontaneità infantile?
Credo proprio di sì:
l’evidenza dei fatti parla in questa direzione. La nostra scuola è intrisa di
indicazioni tratte dal ‘donmilanismo’, per usare una felice espressione della
Mastrocola, con una critica feroce ad ortografia, grammatica, matematica e
soprattutto a chi studia con successo e merito, ridicolizzato nella figura di
Pierino nella Lettera a una professoressa.
Tutto ciò è contro i figli delle classi svantaggiate e le loro possibilità di
affermarsi. Basta ricordare che fu proprio la valorizzazione del merito
scolastico a consentire di realizzare il proprio talento a molti dei principali
protagonisti della nostra cultura: si pensi a Cimarosa, figlio di una lavandaia
e di un muratore, e allo stesso Verdi, figlio di una filatrice e di un
modestissimo rivenditore di vino. Nella prospettiva sopra indicata, cara al
consumismo, i ragazzi possono ben restare ignoranti e consumatori di
quart’ordine. Essa va bene anche ai figli di papà, i quali, anche se scrivono
da cani e non comprendono un testo complesso, possono andare avanti con le
conoscenze e le risorse familiari.
Parliamo
dei bambini “iperattivi”, che, oltre ad avere difficoltà di attenzione e
concentrazione, creano seri problemi agli insegnanti nella gestione della
classe. Nel 1997 uscì Se mi vuoi bene dimmi di no della neuropsichiatra Giuliana Ukmar, il primo di una lunga serie che
ha sottolineato l’importanza educativa di porre dei limiti. Cosa possiamo dire
oggi su quanto pesano i problemi neurologici e quanto la mancanza di fermezza
degli educatori?
I bambini possono essere
iperattivi per diverse ragioni. Ci sono quelli che hanno un disturbo
dell’attenzione con iperattività e sono di normale intelligenza. È opinione
comune che una componente neurobiologica ci sia in buona parte di loro. Con
questi bambini bisogna adottare strategie che da un lato limitino l’esposizione
agli stimoli, come per esempio metterli al primo banco con davanti una parete
senza quadri, dall’altro tengano conto del loro bisogno di muoversi. Quando ero
bambino – siamo nella prima età degli anni quaranta – il compagno iperattivo
era quello che veniva mandato dal bidello a portare i registri o a chiedere
qualche cosa per l’insegnante: una semplice strategia pedagogica che teneva
conto del suo bisogno di muoversi. Spesso l’iperattività si riduce o dissolve
col crescere, per cui non è più un problema in adolescenza, mentre il disturbo
dell’attenzione rimane. Viceversa, l’iperattività può essere uno degli aspetti
di bambini che hanno un disturbo del neurosviluppo, specie in quelli con tratti
autistici: in questo caso spesso la situazione è più complessa e richiede un
intervento più articolato che può cambiare da bambino a bambino.
Poi ci sono bambini
iperattivi che hanno un disturbo di eccitazione e possono aver bisogno anche di
una gestione farmacologica. Negli uni e negli altri sono frequenti gli
atteggiamenti oppositori che possono portare a una relazione di sfida che
l’insegnante non deve raccogliere, cercando di non perdere la pazienza e di
trovare delle soluzione alternative con calma e fermezza.
È importante, comunque,
mettere dei limiti e definire ciò che è lecito fare e ciò che non lo è. In
tutti questi casi il problema della loro gestione riguarda anche
l'organizzazione strutturale della scuola. Il fatto che sia spesso organizzata
solo con le classi è una limitazione e un danno per tutti i ragazzini con
difficoltà.
Lei
si è occupato molto a lungo e in modo approfondito dei bambini autistici. Quali
sono le loro caratteristiche e come si dovrebbe affrontare questo problema in
ambito scolastico?
I bambini e ragazzi con
un disturbo dello spettro autistico hanno grandi difficoltà nella relazione e
nella comunicazione e delle modalità
ripetitive: è un disturbo del comportamento che compare in condizioni e
malattie differenti. In prevalenza sono maschi. Nei loro riguardi la scuola ha
delle risorse che possono essere molto importanti. Nella scuola materna il loro
primo riferimento possono essere le bambine, specialmente se un po’ più grandi,
che spesso sono pronte a guidare il compagno in difficoltà, a spiegargli come
fare, ad abbracciarlo e con questo a dargli sicurezza. Anche alcuni compagni
sono di aiuto e riescono a ottenere risultati che l’adulto spesso non ottiene.
Tutto ciò può essere arricchito dall’insegnante, favorendo per un certo tempo
il rapporto a due per poi gradualmente renderlo più complesso con più compagni
e attività. In seguito può guidarli ad altre attività sociali come i giochi di
ruolo, le recite basate su fiabe e altro ancora. La disponibilità ad aiutare
spontaneamente un compagno con disabilità è massima nei bambini piccoli e
comincia a diminuire verso i dieci anni. Questo suggerisce di modificare nelle
età successive le strategie scolastiche finalizzate alla costruzione di un
rapporto con gli altri: per esempio, introducendo delle modalità di
apprendimento congiunto in piccoli gruppi su determinati temi.
Va tenuto presente che in
molti casi siamo di fronte a soggetti con un disturbo del neurosviluppo nel
quale il comportamento autistico è soltanto uno degli aspetti. Oltre a questo
ci può essere disabilità intellettiva di vario grado, a volte anche gravissima,
disturbi del linguaggio, di coordinazione motoria, disprassia, iperattività,
crisi convulsive, periodi di eccitazione psicomotoria o di depressione. Con
bambini e ragazzi di questo tipo ci vuole una scuola più flessibile a partire
dalla sua struttura. È importante avere una “stanza sensoriale” di
rilassamento, che consenta tra l’altro di tenersi lontano dal chiasso
eccessivo: molti bambini autistici sono iperacusici e ne hanno bisogno in
alcune parti della giornata. È utile avere ambienti adatti a diverse esigenze
(teatro, pittura, musica),utili sia per gli alunni con difficoltà di vario tipo
e gravità che per tutti gli altri. La socializzazione si può svolgere anche in
questi ambienti forse meglio che in classe.
Contro questo indirizzo
“flessibile” va un vecchio slogan che risale alla parte più ottusa della
cultura postsessantottina: ‘Devono fare quello che fanno gli altri’. Col che si
pretende che la classe sia il solo luogo di permanenza dei bambini con
difficoltà, perché sarebbe lì che dovrebbero socializzare. Così può succedere
che un adolescente di quindici anni con basso livello intellettivo e carenze
gravi nel linguaggio espressivo si trovi ad avere un insegnante di sostegno che
gli prepara la sintesi del romanzo di uno scrittore contemporaneo, in una
situazione in cui il suo allievo riesce a leggerle a fatica e senza
comprenderne il significato. È un modo distorto di concepire il lavoro degli
insegnanti di sostegno, che li impegna nella sintesi di argomenti lontanissimi
dall’interesse del ragazzo. Così non si tiene conto dei suoi interessi e
bisogni, sia nell’immediato che nella prospettiva della sua crescita.
All’opposto
la scuola può correre il rischio di diventare il terreno di terapie
totalizzanti. Una di questa è l’ABA, una terapia comportamentale che può essere
estesa fino a 40 ore alla settimana. Uno studio svedese ha dimostrato che
questa terapia fatta per 10 ore alla settimana dà gli stessi risultati di
quando si protrae per 40 ore. Questi dati ci invitano a
un maggiore equilibrio e a far sì che la scuola rimanga tale: eventualmente
facendo propri alcuni aspetti di una terapia, ma rimanendo la sola protagonista
come struttura e come figure educative. Ci dev’essere un tempo per la scuola e
un tempo per la terapia, senza sovrapposizioni.
Ci sono poi bambini e
ragazzi di normale intelligenza che hanno importanti difficoltà nella relazione
e modalità ripetitive, ma hanno una comprensione ed espressione del linguaggio
adeguata: alcuni studiosi li considerano all’interno dello spettro autistico,
altri come un poco differenti e si parla in questi casi di sindrome di
Asperger. Questi giovani sono ad alto rischio di diventare vittime di bullismo
e vanno protetti. Hanno, viceversa, degli interessi e delle abilità particolari.
Si pensi ad Alan Turing, che verosimilmente aveva questo disturbo e scoprì il
linguaggio cifrato dei nazisti, dando poi un contributo importante alla
realizzazione dei primi computer. Vanno quindi valorizzati nei loro punti
forti, mentre non bisogna insistere sui punti deboli, evitando il rischio di
umiliarli.
Il
fenomeno dell’autismo è in crescita?
Per l'autismo l'epidemia
delle diagnosi è clamorosa. Si pensi che negli anni sessanta, settanta e
ottanta c’erano cinque studi di prevalenza fatti in diverse parti del mondo che
davano lo stesso risultato: solo 4 casi su 10.000. Oggi si va dall’ 1% secondo il DSM, il manuale diagnostico più
diffuso, al 2-3% di altri studi. L’impennata nella prevalenza è collegata in
parte al fatto che vengono diagnosticate come autistiche persone di normale
intelligenza, ciò che in passato avveniva più di rado, e in parte
all’attribuire un significato diagnostico ad alcuni test mentali. Sotto questa
etichetta, insomma, vengono in realtà fatte passare situazioni diverse che
richiedono interventi più articolati e specifici.
L’ultimo
tema su cui le chiedo un parere è la normativa sui BES, i bisogni educativi
speciali. Invece di
affiancare agli insegnanti validi consulenti, come succede per in
Finlandia, si è scelta ancora una volta quella che si può definire “illusione
procedurale”, per cui i problemi si possono
risolvere attraverso un insieme di prescrizioni, con un iter burocratico. Si
varano delle linee guida, si costituisce una molteplicità di gruppi e comitati
poco qualificati, infine il Consiglio di Classe, decide se fare o no il PDP, il
piano didattico personalizzato. Ci risulta che tutto questo abbia dato luogo a
una crescita esponenziale di certificazioni e di pressioni da parte dei
genitori, forse come scorciatoia per la promozione. Risulta anche a Lei?
Risulta anche a me. In tutta apparenza l’ “illusione
procedurale” è l’impalcatura di quella
sostanza di cui abbiamo parlato all’inizio, di come cioè la diagnosi di
dislessia, condizione rara, venga nei fatti a coprire difficoltà di
apprendimento di varia natura. Tra l’altro la molteplicità di gruppi e comitati
contribuisce sciaguratamente a render nota la diagnosi a tutti, compresi i
compagni di classe e i loro genitori. In questo modo la diagnosi, non importa
se inesatta, diventa un’etichetta che in molti casi i ragazzi introiettano,
definendosi da soli: ‘io sono un dislessico’, mentre alcuni genitori si
adattano e arrivano ad apprezzare ‘le facilitazioni’ che il figlio viene ad
avere. Questo è un danno grave alla stima di sé, alla forza per
migliorare. Un esperto che sia di aiuto
agli insegnanti apre una prospettiva migliore: ma è anche necessario che la
cultura di questo specialista sappia muoversi adeguatamente in questo campo,
facendo le opportune differenze diagnostiche e riabilitative.
La cosa quindi non si deve
risolvere in una scuola più facile, ma nel cercare una modalità di
apprendimento che aiuti il ragazzo. Nella pratica però il concetto di bisogno
educativo speciale si amplia indefinitamente, estendendosi a volte anche a dei
ragazzi che hanno temporaneamente dei normali problemi familiari, esonerandoli
dal normale impegno, che forse invece gli farebbe bene.
Con una normativa del genere questo rischio è alto.
D’altra parte, se c’è per esempio un bambino indietro nella lettura, non è più
semplice cercare in un primo tempo di aiutarlo chiedendo anche la
collaborazione quotidiana dei genitori? Nel caso che le difficoltà siano più
gravi, si può far intervenire successivamente un professionista. Finché questo
bambino non legge e scrive come il resto della classe, per quale ragione
dovrebbe essere costretto a leggere a voce alta ed umiliato davanti ai
compagni? E a un bambino con gravi
difficoltà di calcolo perché non si dovrebbe dare la calcolatrice? Per fare
queste semplici cose è necessaria un’etichetta? I cosiddetti bisogni educativi
speciali sono un’altra via maestra verso una forma di esclusione prodotta in
classe in mezzo agli altri: e della sua diffusione.