“Corriere
Fiorentino”, 5 agosto 2017
L’estate è per i cosiddetti Neet, cioè per
un quinto dei nostri giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano né lavorano,
una stagione più terribile delle altre perché proprio nei mesi estivi il senso
di fallimento si acuisce. Il problema non è solo italiano ma in pochi altri
Paesi al mondo è grave come da noi.
Sulle ragioni di questa drammatica
situazione molto si è scritto e si continuerà a scrivere perché la percentuale
dei nostri ragazzi che vivono nel limbo dei Neet è, in Europa, seconda solo
alla Turchia. Non mi soffermo sulle cause, tra cui la crisi economica o la
pesantezza delle tasse che rendono spesso impossibile alle imprese assumere dei
ragazzi, ai quali peraltro andrà anche insegnato il lavoro, dato che una
sciagurata politica scolastica ha pressoché liquidato la formazione
professionale e tecnica. Mi preme invece mettere in evidenza altre
responsabilità che sono alla base di queste scelte formative, cavallo di
battaglia della sinistra tradizionale che con il ministro Berlinguer picconò la
«vecchia» scuola facendo alla fine diventare quella superiore un prolungamento
della media. Si asseriva, con la sicurezza tipica dell’ideologia piuttosto che
con la capacità di preparare il futuro senza cancellare il meglio del passato,
che i giovani avevano bisogno non di specializzazioni, ma di «teste ben fatte»,
che solo una scuola licealizzata avrebbe saputo forgiare. Come se fino ad
allora i laboratori artigiani e le scuole tecniche e professionali avessero
formato sudditi acritici e indolenti! Insomma, il nuovo sistema scolastico
voleva inculcare nella gente, riuscendovi in pieno, l’idea che il lavoro
manuale era destinato ai perdenti e che il modello vincente era quello liceale.
Insieme a tutto ciò proliferarono nuovi indirizzi universitari scollegati
spesso dal mondo del lavoro e collocati anche nelle cittadine di provincia,
togliendo così a molti giovani anche l’importantissima esperienza di misurarsi
con realtà nuove, senza le mediazioni e le protezioni familiari. Protezioni che
in Italia più che in altre Paesi tendono a imprigionare i figli piuttosto che
renderli finalmente autonomi. Si lanciò poi la demagogica parola d’ordine del
«diritto al successo formativo» cancellando paralellamente quello al lavoro.
Insomma, tutto ha contribuito a deresponsabilizzare i nostri ragazzi, i cui
genitori, a differenza di quanto accade in molti Paesi europei, spesso
continuano ad accudirli e a garantire loro la paghetta fin oltre i trent’anni.
Occorre dirlo con forza: per certi lavori i posti ci sono e c’erano anche in
passato quando venivano ricoperti dagli extracomunitari o dai pensionati.
Ricordo la rabbia di amici e parenti che negli anni novanta non riuscivano a
trovare potatori di ulivi e viti, benché i nostri istituti agrari pullulassero
di studenti preparati per farlo. Intanto questi amici e parenti hanno insegnato
ai loro operai albanesi a potare e ora questi lo fanno con la sapienza e il
rispetto che le piante impongono. Accade anche che ristoranti, pasticcerie e
trattorie richiedano da tempo inutilmente agli istituti alberghieri giovani
disponibili a impiegarsi e ciò forse non accadrebbe se i professionali si
proponessero, come accadeva in passato, quali indirizzi fortemente orientati
alle attività pratiche. Mi sembra che il disastro culturale che ha bandito il
lavoro manuale dal futuro dei nostri giovani sia ampiamente confermato anche
dalle critiche che si continuano a fare contro l’alternanza scuola-lavoro: cioè
contro la misura più opportuna e incisiva che abbia mai caratterizzato la
nostra scuola negli ultimi decenni. Per ora l’unica misura che può aiutarci a
rinnovarla e nello stesso tempo a rinnovare le mentalità dei tanti, a proposito
del lavoro manuale, imbevute di preconcetti e luoghi comuni.
Valerio Vagnoli