giovedì 12 aprile 2018

LA SVOLTA MANCATA DEI PROFESSIONALI

L’annuale Rapporto dell’Istituto Toniolo sulla condizione dei nostri giovani conferma ancora una volta, rispetto a quella di altri Paesi europei, un dato davvero sconfortante.
E cioè l’alta e sempre più insostenibile percentuale dei cosiddetti Neet, i giovani tra i 15 e i 29 anni che non sono impegnati nello studio o nel lavoro o in percorsi formativi. In Italia si attesta al 26% rispetto alla media Ue del 15,6%. Soprattutto si conferma come questi giovani provengano in maniera pressoché totale da famiglie meno abbienti soprattutto del Sud. Il timore, direi quasi la certezza, è quello di vedere questi numeri, che corrispondono a oltre 2 milioni di giovani, crescere inesorabilmente anche nei prossimi anni.
Uno dei motivi di questo pessimismo deriva dalla recente revisione degli istituti professionali. Ci aspettavamo che il ministero finalmente ponesse almeno qualche rimedio al loro progressivo snaturamento. Invece, dopo un anno di lavoro di una commissione ad hoc, si è dovuto constatare come la situazione sia addirittura peggiorata. Ci si è limitati infatti a un intervento di pura facciata che lascia più o meno le cose come erano (troppe materie-poca pratica), salvo aggravare il carico burocratico delle singole scuole che è, oggettivamente, al limite del collasso.
La mobilità sociale, che è un caposaldo di qualsiasi società liberale e anche la miglior garanzia perché le democrazie si mantengano tali, va, per i meno abbienti, estinguendosi. Al pari, verrebbe da dire non a caso, della qualità delle nostre scuole professionali. A dimostrazione di ciò, si registra la progressiva nascita, soprattutto in alcuni indirizzi professionali, di corsi privati post-diploma, con lo scopo di formare sul serio al lavoro i tanti giovani che dopo cinque anni di scuola sono ancora lontani dal possedere le competenze necessarie per poter svolgere una professione; quando non si tratta addirittura di doverli correggere dal punto di vista del comportamento e dell’educazione. Il che rende spesso ancora più difficile e faticoso a quell’età recuperarli a un lavoro realmente qualificato, al senso di responsabilità e alla consapevolezza dei loro doveri, beninteso unita a quella dei propri diritti. Senza contare che, in mancanza di un compiuta professionalità — che comprende la necessaria maturazione umana — i ragazzi rischiano, come alternativa alla disoccupazione, di finire alle dipendenze di datori di lavoro inaffidabili e disinteressati a investire sul cosiddetto capitale umano.
Ovviamente questi corsi sono a pagamento e perciò non aperti a chi non può permetterseli. Insomma, il sistema si avvita sempre di più e gli «ultimi» saranno inesorabilmente esclusi dalla possibilità di veder cambiato in meglio il loro destino, grazie anche a scuole professionali e tecniche che da decenni sono progressivamente venute in gran parte meno alla propria vocazione. Scuole che affogano inoltre in una burocrazia oramai elefantiaca, spesso nella retorica di una pseudo-inclusione e nella necessità di dare occupazione a una miriade di precari storici, arrivati alla cattedra senza più entusiasmi e passione, che sono per la qualità della scuola elementi imprescindibili. Come è imprescindibile non rinunciare a darle un senso. Purché non sia quello del parcheggio.
Valerio Vagnoli
“Corriere Fiorentino”, 11 aprile 2018

7 commenti:

Anna ha detto...

La scuola pubblica affonda quella privata avanza.Colpa anche stavolta dei Grillini?

Io Non Sto con Oriana ha detto...


La creazione di un numero enorme di drop out è risultato di scelte politiche precise ed è stata considerata per anni un prezzo accettabilissimo. Solo un terrorista poteva osare qualche contestazione.
Qualcosa non va?

Vishnu ha detto...

Ma qui nessuno avanza. Siamo tutti nel fango.

Vishnu ha detto...

L'unica alternativa è stata abbassare il livello di tutti e dichiarare malattie inventate. Non hanno escogitato altro.

paniscus ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
paniscus ha detto...

Per quanto riguarda i conteggi sull'eccesso di cosiddetti NEET.

A parte il fatto che conteggiare nella stessa fascia demografica persone che vanno dai 15 ai 29 anni (come se le loro esigenze di vita e le loro possibilità di azione personale fossero tutte paragonabili) mi pare poco significativo.

Si ammetterà che un 17enne che ha smesso di andare a scuola senza nemmeno prendere una qualifica professionale pratica rappresenta un caso sociale diverso rispetto a un 27enne disoccupato dopo una laurea e un master, o a una ragazza 25enne che si è sposata giovane e che è già una madre di famiglia.

Detto questo, ci metterei dentro due effetti importanti che alterano il quadro.

Uno: negli strati sociali più economicamente depressi, io penso che molti di questi giovani non siano realmente "inattivi", ma che lavorino in nero. Domestiche, baby sitter, facchini, fattorini, aiutanti in botteghe artigiane o in mercati ambulanti, braccianti agricoli a giornata, e tutto il resto del pantano sommerso che ben si conosce. Il che è certo una cosa negativa, e che deve essere combattuta, ma non si può dire che dipenda dal sistema educativo dal quale sono usciti.

Due: in contesti socioeconomici di livello alto (e non parlo di gente "ricca", ma anche di piccolissima ex-borghesia), io penso che, anche al netto di tutte le crisi degli ultimi anni, una buona parte di responsabilità sia da attribuire alle famiglie, che sono molto più bendisposte, rispetto a 20 o 30 anni fa, a mantenere per anni un figlio adulto, in condizioni di relativo benessere individuale, per cui questo è poco incentivato a prendere iniziative per sbloccare la propria situazione.

Diciamocela spiccia: 30 anni fa, se il ragazzo rifiutava di continuare gli studi, la famiglia lo mandava a lavorare a calci nel didietro. E non solo la famiglia bisognosa, ma anche la famiglia economicamente solida, che non aveva tutto questo bisogno urgente di qualche soldo in più, e che avrebbe potuto tranquillamente mantenere il figlio agli studi, se questo avesse voluto studiare.

E' vero che oggi, in quelle condizioni, si troverebbero solo lavori modesti e sottopagati, ma era così anche prima... solo che in passato, come primo passo per iniziare, erano considerati molto più accettabili che stare a casa a non fare nulla.

E comunque, al figlio adulto ancora mantenuto dai genitori, si imponevano determinate regole di vita comune, di responsabilità familiare e di limiti nei consumi, che alla lunga gli stavano strette, e lo incentivavano a darsi una mossa per rendersi indipendente.

Se adesso, per un ventenne che non studia e non lavora, l'alternativa è quella di non fare nulla, però ritrovandosi tutto lavato, stirato e cucinato, avendo la massima libertà di movimento personale, e ampia disponibilità di oggetti di consumo modaioli e spesso superflui, con i genitori che gli pagano vacanze, sport, divertimenti, mezzi di trasporto e gadget tecnologici, e che non gli richiedono nemmeno un minimo di collaborazione alla gestione domestica, mi pare ovvio che la spinta a darsi una mossa sia rinviata il più possibile.

Evidentemente, al netto di tutte le crisi recenti, c'è ancora un livello sufficiente di piccolo benessere diffuso (magari illusorio, e destinato a sgonfiarsi in pochissimi anni, ma ancora percepito come normale) da indurre le famiglie a comportarsi così.

Ma anche qui, non si può dire che dipenda dal sistema scolastico...

Tortora Giuseppe ha detto...

Ciao
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